La mia storia di vita
Famiglia, Ricordi e Business
Ti racconto la mia storia personale, di vita, che ha orientato la mia scelta professionale, diventare una psicologa del lavoro.
La prima azienda che ho avuto la possibilità di analizzare profondamente è stata quella familiare, un laboratorio artigianale che produceva sottopiedi anatomici, in cui eravamo coinvolti tutti:
Mia madre era il supervisore e coordinatore interno. Lei dava i compiti a ciascuno e dettava il ritmo di lavoro per la produzione. Il suo motto era: “Velooooce!” che ripeteva continuamente quando i dipendenti (poco più di una decina) rallentavano. Era difficile tirar fiato con lei, nessuna distrazione era consentita.
Mio padre invece era il “responsabile commerciale” e l’addetto alle relazioni interne ed esterne. Lui socializzava, faceva battute e diceva barzellette per allietare le giornate. Era quello con cui le persone si confidavano quando avevano dei problemi, anche personali. Proprio per queste sue caratteristiche mia madre gli aveva affidato l’incarico di andar fuori e di occuparsi di banche, commercialisti, commissioni varie… poi andava dai clienti a prendere gli ordini e, visto che era fuori, anche di fare la spesa per il pasto quotidiano.
Poi c’era mia sorella, la grande, ragioniera, non poteva fare attività amministrative perché “i conti vanno fatti a mano” e solo da mio padre. E allora, visto che era precisa, poteva stare alla trancia, cioè un macchinario che serve a tagliare le forme dei sottopiedi.
Mio fratello, il figlio di mezzo, aveva l’ambizione della strategia, aveva idee grandiose che spesso e volentieri si scontravano con i limiti imposti dai miei genitori, legati ad un eccessivo risparmio e all’inconsapevolezza dell’importanza di reinvestire una parte delle risorse.
Poi c’ero io, Rossana
la piccola che, come ogni ultimo arrivato, mi era stato dato un compito di pura manovalanza che nessuno voleva fare, il più meccanico e ripetitivo di tutti, che però mi consentiva di guardarmi attorno, di vedere gli altri come fanno le cose, di pensare, di riflettere. È così che ho imparato l’arte di osservare e comprendere… i minimi dettagli, le cose che agli altri sfuggono, le cose che “non c’entrano” e invece c’entrano eccome, quelle che sembrano di contorno, quindi irrilevanti… ma che, se ci pensi bene, sono degli indizi fondamentali. I cosiddetti “segnali deboli”…
Aneddoti da raccontare
Due stili di leadership contrapposti, uno orientato al compito e l’altro alle relazioni, che ho scoperto che sono entrambi necessari per far funzionare al meglio il team.
Una configurazione familiare che non lasciava tempo alla conciliazione con la vita privata, vista come una perdita di tempo rispetto a ciò che conta davvero: “far soldi!”.
Tutto avveniva in questo laboratorio senza soluzione di continuità, passavamo dal seminterrato al primo piano per andare a casa, e i discorsi di lavoro continuavano ininterrottamente.
Non avevamo idea di quanto la vita privata o il tempo libero siano un caricabatterie straordinario per ritrovare energia e motivazione sul lavoro, trovare nuove idee e risolvere problemi importanti.
Non c’era tempo di fare niente, oltre che produrre, produrre, produrre… si viveva alla giornata e sulle urgenze.
Non avevamo neanche il tempo per strutturare una strategia a medio e lungo temine, non c’era pianificazione né previsione, non c’era un organigramma e nessuna attenzione alle reali attitudini di chi lavorava all’interno, né possibilità di crescere o di innovare.
Quali problemi riducevano le nostre performance?
Ho potuto fare dunque un’esperienza diretta e capire i limiti di una visione troppo focalizzata su un solo elemento organizzativo del lavoro, cioè la produzione, sottovalutando tutti gli altri.
Ho una prospettiva molto più ampia oggi su come si gestisce un’azienda, ed ogni volta che incontro un imprenditore iper-concentrato sulla produzione e sui costi, allora si riaccende una missione personale dentro di me, di poter fare ciò che non ho potuto fare nella mia azienda. Ed ogni volta è come farla rinascere.
Eh sì!
Alla fine, noi abbiamo chiuso l’attività nonostante gli elevati fatturati, e ci siamo detti che è stato per colpa di un nuovo competitor che ha fagocitato il mercato, che è stata colpa di mio fratello che a un certo punto ha scelto di sviluppare le sue strategie altrove, che è stata colpa mia che mi sono iscritta alla facoltà di Psicologia del lavoro dopo 8 anni dalla fine della maturità.
In altre parole, tutte le responsabilità sono state attribuite all’esterno. Senza vedere la mancanza di una strategia di lungo periodo efficace e di una politica interna di sviluppo del personale, visto che due risorse “importanti” (io e mio fratello) hanno abbandonato la baracca, prima che affondasse del tutto.
Oggi aiuto tantissime aziende che sono nella stessa situazione, totalmente assorbite dalla gestione delle urgenze da non avere il tempo per fare nient’altro, completamente focalizzate su obiettivi quantitativi di tipo economico/finanziario, aziende senza una visione, senza una pianificazione o senza il tempo di occuparsi delle dinamiche e delle problematiche legate al personale.
Come ho iniziato? La mia esperienza in azienda…
Ho iniziato a far consulenza HR ancor prima di avere l’abilitazione alla professione perché l’azienda presso cui stavo portando avanti la mia tesi sperimentale sulla valutazione delle competenze, sulla base della preparazione che avevo dimostrato, mi chiese di fare un’analisi dei carichi di lavoro in uno stabilimento piemontese.
Praticamente dovevo capire perché, dal confronto fra due gruppi di lavoro con lo stesso numero di persone emergeva, in uno dei due gruppi, un livello dimezzato della produttività. Ho dunque intervistato i dipendenti di tutti i livelli organizzativi, dai vertici alla base dell’organigramma, riuscendo ad abbattere le resistenze e superare la sfiducia che si era creata nel tempo nei confronti della direzione, rispetto alla possibilità di affrontare efficacemente la situazione. Ho evidenziato le precise responsabilità legate alla dispersione dei tempi e, di conseguenza, alla perdita dei risultati, ho individuato chi scompariva durante i turni di lavoro, il ruolo della squadra esterna dei tecnici e l’erronea suddivisione delle mansioni tra i dipendenti e i professionisti.
Una diagnosi organizzativa ben fatta facilita l’individuazione di strategie operative concrete, per risolvere le criticità individuate.
A partire dunque da queste consapevolezze abbiamo ridisegnato i confini e le responsabilità di ciascun ruolo, abbiamo rivisto le competenze decisionali, stabilito le linee di comunicazione e di passaggio delle informazioni ed introdotto la figura del Supervisor per il controllo dell’avanzamento dei lavori.
Nel giro di meno di 6 mesi i livelli di produzione si sono equiparati all’altro gruppo, con grande soddisfazione della dirigenza.
Sono passati quasi 18 anni da allora e le mie esperienze professionali si sono molto diversificate. Ho avuto modo di lavorare in quasi tutti i settori merceologici: trasporti e logistica, edilizia, omeopatia, sanità e ospedali, sistema bancario, ho lavorato nelle amministrazioni pubbliche, in aziende private, di produzione, strutture commerciali e società di servizi. Ho lavorato con aziende locali, nazionali ed internazionali. Mi sono confrontata con tutti i livelli organizzativi, dagli amministratori delegati ai consigli di amministrazione, ho lavorato con dirigenti, manager, quadri, formatori, coordinatori, impiegati, operai, meccanici, Responsabili della Sicurezza (RSPP) e rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e forse anche altri ruoli…
Questa esperienza multiforme mi ha consentito di sviluppare una notevole flessibilità, capacità di comunicare e negoziare a tutti i livelli, ma soprattutto di riuscire a “leggere” e comprendere contesti organizzativi di tutti i tipi, oltre che co-progettare strategie risolutive per ogni tipo di problematica incontrata.